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di Marco Bertorello

In un 2017 dai molteplici passaggi elettorali finiscono sotto i riflettori quasi esclusivamente le difficoltà politiche dell’Europa. Dopo lo scampato pericolo in Olanda, dove però gli anti-euro quadruplicano i seggi in parlamento, ci saranno le elezioni in Francia e poi in Germania, in attesa di sapere quando toccherà a un’Italia ancora in bilico. Ogni robusta crescita degli euroscettici viene considerata causa del permanere dell’instabilità economica del Vecchio continente e non il suo riflesso.

Eppure, come hanno dimostrato i risultati elettorali del mondo anglosassone, dovrebbe apparir chiaro come siano i problemi di ordine economico, l’aumento delle diseguaglianze e una mancata crescita adeguata, a dare vita a fenomeni di rabbioso rigetto a traino nazional-populista. Sono i meccanismi economici fondati su austerità e ipercompetizione a non funzionare e ha creare diffuso malcontento, non certo il contrario. I mercati finanziari, come si sa, sono sempre irrequieti e timorosi, consapevoli di galleggiare in un contesto reale assai compromesso, ma probabilmente anche per quest’anno i timori sul fronte politico saranno piuttosto circoscritti: la Le Pen finirà per perdere il ballottaggio, in Germania la sfida si esaurirà all’interno dei tradizionali schieramenti e in Italia non ci saranno neppure le elezioni. Se arriverà, dunque, una boccata d’ossigeno dal versante politico essa dovrebbe costituire una spinta per quello economico, dovrebbe costituire la prova del nove che l’economia alleggerita dall’incertezza politica tira. Una sorta di nuova versione, o aggiornamento, della teoria secondo cui era necessario liberare l’economia da «lacci e laccioli». In effetti per quest’anno non si prefigurano particolari scossoni in Europa, l’inflazione è in ripresa, seppur trainata quasi esclusivamente dai prezzi dell’energia, la crescita ruoterà intorno all’1%, insomma sembra un anno all’insegna della normalizzazione. L’economia tornerà a essere la soluzione? Tornerà la supremazia del mercato? Qualcosa non quadra, proprio a partire dalle scelte politiche ed economiche di questi ultimi mesi. Intanto ad ogni aumento dei bacini elettorali del nazional-populismo crescono le dosi di sovranismo che le classi dirigenti sono disposte a concedere, e non solo in termini securitari in chiave anti-migranti. La stessa formula, da tanti curiosamente ben accolta, di un’Europa a più velocità appare un progetto quantomeno oscuro. Il commentatore del «Sole 24 Ore» Carlo Bastasin sostiene che «deve essere una di quelle perifrasi così elastiche da rimbalzare indietro al primo impiccio». Tali, infatti, sono le spinte centrifughe a cui è sottoposto il Vecchio continente, che non si comprende come differenti velocità nella convergenza di paesi con economie sempre più divergenti possano rappresentare una soluzione univoca. Ci saranno paesi che accelereranno sul versante della difesa e altri che stringeranno accordi commerciali reciprocamente vantaggiosi. E che dire poi di quelli (praticamente tutti in diverse gradazioni) che intendono restringere la libertà di circolazione delle persone? Quale parte dell’accordo su più velocità potrà circoscrivere il problema di una Germania in costante e crescente avanzo commerciale a danno di molti paesi periferici? E come si potranno conciliare l’esigenza di una riduzione dell’interventismo monetario da parte della Bce (leggasi fine del Quantitative easing e ripresa dei tassi d’interesse) con economie di paesi periferici che, a colpi di austerità, non sono riusciti a ridurre il loro debito sovrano? Chiuso l’ombrello protettivo della Bce, tornerà a correre lo spread tra i titoli dei paesi periferici e i bund tedeschi. Tornerà ad essere più gravoso il costo del debito per i paesi meno solidi. Persino il blocco centro-europeo guidato da Berlino non risulta omogeneo: basta guardare i dati macro-economici della Finlandia (principale alleato di Schauble nello spezzare le reni alla Grecia meno di due anni fa) per capire come le periferie sono dislocate a diverse latitudini. Il provvedimento del governo italiano sulla cosiddetta flat-tax, una tassa minima per invogliare i Paperoni, italiani e stranieri, a pagare le tasse in maniera forfettaria in Italia, non solo acuisce le differenze di trattamento tra ricchi e poveri, ma rilancia la competizione sovranazionale sul terreno fiscale. Come se la costituzione di tanti paradisi fiscali non finisse per indurre ogni paese a diventarlo in un tragico gioco a somma zero. L’Irlanda da anni offre una tassazione all’impresa straordinariamente bassa, ora con la Brexit la Gran Bretagna rilancerà, nel Belpaese si offrono sconti fiscali per i facoltosi: se tutti rincorrono i capitali, allora i conti non potranno tornare di certo. Il nodo irrisolto è quello di un’economia di mercato ipercompetitiva che resta il terreno di gioco dei paesi europei, altro che Unione o moneta unica!

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