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Non si può sostenere che una differenza salariale equivalga a una discriminazione” (Neue Zürcher Zeitung, 30.01.2023), “Statistiche controverse sulla parità salariale” (agefi, 25.01.2023), “Disputa sui confronti salariali” (televisione svizzera, 10 vor 10, 6.03.2023): questi titoli testimoniano la nuova offensiva in corso per screditare l’idea che le donne siano discriminate in materia salariale. Lo sciopero femminista del 14 giugno si avvicina, così come la scadenza per le aziende con più di 100 dipendenti di comunicare i risultati delle loro analisi del divario salariale. L’obiettivo è quello di soffocare preventivamente qualsiasi rivendicazione. A tal fine, i datori di lavoro e i loro delegati borghesi stanno diffondendo un argomento “ad ampio spettro”. Il tema è che il divario salariale tra uomini e donne non è così grande come sostengono e che, se ancora esiste, non è colpa dei padroni, ma delle donne o delle “mentalità”.

Cancellare le disuguaglianze… eliminando le donne…

Conny Wunsch, professoressa di economia all’Università di Basilea, è in prima fila nel minimizzare lêntità delle disuguaglianze salariali. In un documento pubblicato nel febbraio 2021 [1], annuncia che le differenze salariali “inspiegabili” [torneremo più avanti su questo discutibile concetto] tra uomini e donne potrebbero essere ridotte “fino al 50%” applicando i moderni metodi di analisi statistica. Questa “conclusione” è fatta propria nelle argomentazioni dei datori di lavoro e della borghesia.

Un asse decisivo della “modernizzazione” proposta dalla signora Wunsch riguarda la comparabilità tra uomini e donne. Il punto di partenza è ovvio: l’occupazione di donne e uomini è segregata. Per intenderci: il personale infermieristico delle case anziani è costituito quasi esclusivamente da donne a tempo parziale; i dirigenti dei reparti produttivi delle aziende industriali sono quasi tutti uomini a tempo pieno. Ciò rende difficile la formazione di coppie, composte ciascuna da un uomo e una donna con le stesse caratteristiche (stessa età, istruzione, responsabilità professionale, settore di attività, ecc.) necessarie per la comparazione dei salari.

Di fronte a questa mancanza di “supporto comune”, per usare un termine tecnico, gli strumenti statistici “modellano” gli elementi mancanti (l’uomo che lavora nell’assistenza in una casa anziani; la donna ingegnere dirigente). Ma la modellizzazione può non essere ottimale. Per Conny Wunsch, quindi, si devono considerare solo le coppie uomo-donna per le quali è possibile stabilire un “supporto comune”. In questo modo, e con l’uso di metodi statistici più “robusti”, si riesce a ridurre il divario salariale “inspiegabile” del 50%. Ma a quale prezzo: l’80% delle donne viene eliminato dal confronto, poiché non ha un equivalente maschile che condivida le sue caratteristiche. Questo vale in particolare per le donne con salari molto bassi…

Di fronte all’assurdità di questo risultato – che tuttavia serve a creare scalpore – la Wunsch propone di limitare il requisito del “supporto comune” alle variabili più importanti, ampliando così la percentuale di donne prese in considerazione. La professoressa di Basilea giunge quindi al risultato che la differenza salariale “non spiegata” scende dal 7,7% al 6% nel settore privato e dal 6,4% al 3,2% nel settore pubblico. Ma una donna su cinque nel settore privato e una su dieci nel settore pubblico sono ancora eliminate dal confronto. Nonostante i suoi sforzi, la signora Wunsch non può eliminare il divario salariale “inspiegabile” tra uomini e donne. Un rapporto di esperti commissionato dal Consiglio federale ha già dimostrato nel 2015 che le cosiddette analisi statistiche “più sofisticate” non hanno eliminato questa differenza, che corrisponde al nucleo della discriminazione salariale subita dalle donne [2].

… o spiegandole attraverso il ruolo delle donne

Il secondo asse dell’offensiva borghese è che le analisi ufficiali delle differenze salariali non tengono conto di sufficienti fattori esplicativi. Non si può quindi affermare che le differenze “non spiegate” siano sinonimo di discriminazione. Questo è il senso del postulato presentato nel dicembre 2022 dal consigliere nazionale radicale Marcel Dobler (San Gallo). Il postulato chiede “uno studio specifico della parte non spiegata del divario retributivo tra i sessi, utilizzando i più recenti metodi scientifici. Le possibili cause di questo divario, come la maternità, l’assenza dal lavoro, lo stato civile o l’esperienza professionale, dovranno essere esaminate per tutti i gruppi di età”. Membro del comitato dell’organizzazione mantello dei datori di lavoro Economiesuisse, cofondatore di Digitec-Galaxus, che ha poi venduto a Migros nel 2014, Marcel Dobler è dal 2018 comproprietario dei negozi di giocattoli Franz Carl Weber, che impiegano quasi 200 dipendenti, probabilmente in maggioranza donne… il che forse spiega il suo interesse per la questione.

Nelle attuali analisi ufficiali, diverse caratteristiche prese in considerazione per spiegare le differenze salariali tra uomini e donne sono esse stesse un riflesso della discriminazione subita dalle donne. Ad esempio, la posizione professionale (essere o meno manager) dovrebbe “spiegare” parte di questa differenza. Ma le donne si scontrano spesso con il meccanismo discriminatorio del cosiddetto “soffitto di vetro“. Considerare che la posizione professionale “spiega” la differenza salariale tra uomini e donne equivale quindi a fingere che le differenze salariali derivanti dalla discriminazione – il soffitto di vetro – siano giustificate.

Con il postulato Dobler, si farebbe un ulteriore passo avanti: una differenza salariale legata al fatto che le donne hanno sperimentato la maternità sarebbe quindi considerata “spiegata” e quindi giustificata. In altre parole e per rendere l’idea: le donne guadagnano meno degli uomini perché… sono donne. Nella sua risposta negativa al postulato, il Consiglio federale è stato costretto a ricordare che la Legge sulla Parità stabilisce che qualsiasi discriminazione “sulla base dello stato civile o della situazione familiare è vietata“.

Tuttavia, ci vorrebbe ben altro per rallentare la macchina della propaganda borghese. Per aggirare questa obiezione, piuttosto elementare, essa sviluppa una duplice argomentazione: le differenze di caratteristiche tra uomini e donne non sarebbero in realtà la conseguenza di discriminazioni subite dalle donne (svantaggiate in termini di carriera, ad esempio), ma di una loro “libera scelta”, oppure di una “mentalità” dominante e “conservatrice”. In ogni caso, i datori di lavoro non ne avrebbero alcuna colpa.

Le donne guadagnano meno… perché così vogliono

Cominciamo con la “libera scelta“. Questo argomento viene illustrato dalle parole dell’economista Conny Wunsch, sempre in un’intervista alla NZZ (30.01.2023). Alla domanda se ci sono ancora datori di lavoro che pagano sistematicamente le donne meno degli uomini, risponde che questo non è escluso, anche se, a suo avviso, piuttosto raro. Poi prosegue: “[…] Ciò che probabilmente è più comune è il fatto che una piccola azienda abbia pochi soldi a disposizione. Mette a concorso un lavoro per il quale si guadagnerebbe molto di più in una grande azienda. È più probabile che le donne facciano domanda perché per loro sono più importanti un tragitto più breve o una maggiore flessibilità rispetto a uno stipendio più alto. Si tratta di discriminazione salariale? […] Se un’azienda ha pochi soldi e sono soprattutto le donne a chiedere quel lavoro, non può essere criticata per aver assunto delle donne. Se un uomo avesse fatto richiesta per quel posto, avrebbe anche guadagnato meno. Ma l’uomo accetta uno spostamento più lungo, perché vuole una retribuzione maggiore. Inoltre, le donne tendono a negoziare il loro stipendio meno degli uomini, soprattutto quando vengono assunte. Consiglio a tutte le donne di farlo e di rivendicare il proprio stipendio. Ma le donne, più spesso degli uomini, preferiscono evitare i rischi“.

Ecco fatto: le donne guadagnano meno perché lo vogliono, in base alle loro “preferenze”… per tragitti più brevi, orari flessibili e l’avversione al rischio. Ovviamente, due “dettagli” sfuggono all’attenzione dell’economista Wunsch.

In primo luogo, la presunta “preferenza” delle donne per la flessibilità potrebbe avere a che fare con il fatto che la stragrande maggioranza del lavoro domestico ed educativo spetta a loro. Dove sono le misure per sviluppare servizi pubblici di assistenza all’infanzia, che garantiscano un posto a ogni genitore che lo richieda e siano accessibili senza barriere finanziarie? Dov’è il congedo parentale sufficientemente lungo per trascorrere il primo anno con un neonato senza dover interrompere o ridurre drasticamente la propria attività professionale? Dove sono le severe sanzioni contro i datori di lavoro che continuano a licenziare le puerpere, anche se ciò è vietato? Quando i datori di lavoro saranno obbligati a concedere il part-time agli uomini che lo richiedono e ad aumentare l’orario di lavoro delle donne che hanno temporaneamente ridotto il loro orario di lavoro? A quando una riduzione dell’orario di lavoro per rendere compatibili lavoro e responsabilità familiari?

In secondo luogo, nella vita reale, c’è qualcos’altro oltre alle “preferenze” abracadabra delle donne: il “rapporto di forza” sociale. Non ci sono quasi mai assistenti a tempo pieno nell’assistenza domiciliare o nelle case di riposo, così come non ci sono commesse a tempo pieno, soprattutto a causa delle loro “preferenze“? Oppure perché il part-time imposto è ideale per garantire la massima flessibilità ai datori di lavoro nella gestione delle “risorse umane“? Gli stipendi della maggior parte delle donne in assistenza, riconosciuti insufficienti, sono dovuti alle loro “preferenze” per la flessibilità, alla loro troppo bassa “produttività” (misurata come?), oppure sono dovuti ai distruttivi vincoli di bilancio imposti ai servizi sanitari in nome della “lotta all’esplosione dei costi della salute“, vincoli guidati dai partiti di destra e dalle associazioni dei datori di lavoro? I salari così bassi nel settore del commercio al dettaglio o dei servizi di pulizia, dove le donne sono in maggioranza, sono dovuti al fatto che si tratta di aziende che hanno “poche risorse“? Oppure perché Migros, Coop, Manor e ISS sono in una posizione di forza per imporre le loro condizioni salariali e lavorative? E tutti questi bassi salari, imposti in settori in cui le donne sono in grande maggioranza, non sono forse considerati “normali” perché riguardano soprattutto le donne, il cui reddito continua a essere considerato “supplementare“?

Altrimenti, è colpa delle “mentalità”…

L’argomento “mentalità” completa il precedente. Eccone un’illustrazione. Per dare un sostegno “scientifico” al suo postulato, il radicale Dobler evoca una “recente analisi” dell’Ufficio dell’economia e del lavoro del cantone di Zurigo (Wirtschaftsmonitoring, dicembre 2022, p. 17). L’autore principale di questa “analisi” è Luc Zobrist, capo del dipartimento economico del suddetto ufficio, che è stato eletto come radicale nella città di Zofingen (AG) ed è stato in precedenza assistente di ricerca presso Avenir Suisse, la società che produce propaganda per i datori di lavoro. Un esperto. Afferma che se esiste ancora un divario salariale tra uomini e donne, ciò non ha nulla a che fare con la discriminazione: “il fattore più importante che contribuisce alla differenza salariale [è che] non appena le donne hanno figli, riducono il loro tasso di attività. Questo non solo riduce il loro reddito, ma a medio termine anche l’esperienza lavorativa e le opportunità di carriera”. Questa situazione è il risultato “dell’influenza decisiva delle rappresentazioni dei valori, della condivisione dei ruoli e delle preferenze“, che in Svizzera sono “piuttosto conservatrici rispetto all’Europa”. Quindi i datori di lavoro, come già dimostrato in precedenza, non c’entrano per nulla. Ma questa presunta “spiegazione” è doppiamente discutibile.

In primo luogo, è fuorviante suggerire che solo le donne che hanno avuto figli sono colpite dalle disuguaglianze salariali. Secondo l’analisi dettagliata delle differenze salariali nel 2020 pubblicata dall’UST [3], la differenza salariale tra uomini e donne tra le persone sposate (Zobrist basa la sua “dimostrazione” sullo stato civile) è effettivamente del 25%, di cui due quinti (10%) sono considerati “inspiegabili”. Ma la differenza salariale non è inesistente tra i single: ammonta al 4,6%, di cui due terzi (3,1%) sono considerati inspiegabili. Questi risultati convergono con quelli dello studio pubblicato nel 2019 da Betina Combet e Daniel Oesch [4]. Utilizzando i dati di due coorti che tracciano le prime carriere professionali, i due autori dimostrano che “le giovani donne guadagnano salari più bassi rispetto ai giovani uomini con competenze comparabili e che svolgono lavori analoghi molto prima di avere figli” [sottolineatura degli autori]. Essi stimano questa differenza “inspiegabile” tra il 3% e il 6%.

In secondo luogo, i datori di lavoro svolgono un ruolo attivo nell’aumentare il divario salariale nei confronti delle donne con figli. Lo dimostra un altro studio [5] a cui ha partecipato ancora Daniel Oesch. Questo studio, da un lato mostra che, a parità di caratteristiche, avere un figlio riduce il salario delle donne interessate dal 4% all’8%. dall’altro lato, un esperimento condotto con i reclutatori dei dipartimenti del personale mostra che essi offrono alle donne con figli che si candidano per un posto di assistente alle risorse umane uno stipendio inferiore del 2-3% rispetto a quello offerto alle candidate senza figli, anche se tutte le altre caratteristiche delle candidate sono identiche. Il divario è più pronunciato per le giovani madri, per le quali raggiunge il 6%. Sono quindi le scelte a priori dei datori di lavoro ad ampliare il divario retributivo a scapito delle madri, non una presunta “mancanza di esperienza professionale“.

Quanto all’invocare la “mentalità conservatrice” svizzera per scagionare i datori di lavoro, si tratta di una tipica ipocrisia da parte di un rappresentante del Partito Radicale, pilastro del potere borghese da un secolo e mezzo e fedele intermediario delle richieste dei datori di lavoro. Che cosa ha fatto il Partito Radicale per evitare che la Svizzera fosse uno degli ultimi Paesi al mondo a concedere il diritto di voto alle donne, nel 1971? Chi ha frenato, tanto che ci è voluto il primo sciopero delle donne nel 1991 perché nel 1996 entrasse finalmente in vigore una Legge sulla parità? Chi ha combattuto duramente contro il congedo di maternità, che in Svizzera esiste solo dal 2005? Chi sta ancora bloccando l’introduzione del congedo parentale? Chi ha ostacolato per decenni il finanziamento delle strutture pubbliche di assistenza all’infanzia?

Le radici di questo accanimento

La “flessibilità del mercato del lavoro” – ovvero l’assenza di diritti collettivi e la debolezza delle norme a tutela dei lavoratori – è sempre stata un vantaggio decisivo per i datori di lavoro svizzeri. La lotta delle donne per la parità salariale minaccia questo “vantaggio competitivo“: significa che le regole socialmente definite – l’uguaglianza tra uomini e donne, e quindi il principio secondo cui il lavoro di pari valore deve essere retribuito allo stesso modo – possono porre dei limiti alla discrezionalità dei datori di lavoro, che vorrebbero mantenerla illimitata. Questa richiesta ha acquisito una legittimità sociale incomparabile con quella di altre richieste sociali, come quella di un salario minimo. È questo progresso che i circoli borghesi e padronali sono determinati a contrastare, con ogni mezzo. Ciò sottolinea il significato dell’impegno sindacale a suo favore.

*Jean-François Marquis è un membro del Syndicat des services publics (SSP). Articolo apparso sul sito www.alencontre.org il 27 aprile 2023. La traduzione è stata cura dal segretariato MPS.

[1] Anthony Strittmatter, Conny Wunsch (2021), “The Gender Pay Gap Revisited with Big Data: Do Methodological Choices Matter?”, WWZ Working Paper 2021/05.

[2] Christina Felfe, Judith Trageser, Rolf Iten (2015), “Study of the analyses applied by the Confederation to assess gender pay equality. Rapporto finale”.

[3] Kaiser, B. & Möhr, T. (2023). “Analisi delle differenze salariali tra donne e uomini sulla base dell’Indagine svizzera sulla struttura dei salari (ISE) 2020”. BSS Volkswirtschaftliche Beratung. Studio commissionato dall’Ufficio federale di statistica (UST), Tabella 118.

[4] Betina Combet e Daniel Oesch (2019), “The Gender Wage Gap Opens Long Before Motherhood. Panel Evidence on Early Careers in Switzerland”, European Sociological Review.

[5] Daniel Oesch, Oliver Lipps, Patrick McDonald (2017), “The wage penalty for motherhood: Evidence on discrimination from panel data and a survey experiment for Switzerland”, Demographic Research, vol. 37, art. 56, pp. 1793-1824.

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